Il nostro Paese ha un approccio ai temi bioetici molto cauto, circospetto. Forse il nostro background culturale, la propensione alla riflessione filosofica ci impongono di procedere a passi lenti su temi difficili come l’eutanasia e il suicidio assistito.

Nulla a che vedere con il decisionismo del Nord Europa, dove i Governi procedono spediti anche in questi territori delicatissimi.

Nel mezzo, probabilmente, la soluzione. Ma come individuare il confine fra riflessione costruttiva ed inutile elucubrazione? Come impostare il dibattito pubblico su temi che chiedono di prendere urgentemente una posizione chiara?

Ne ho parlato con Manuela Limonta, che si occupa di consulenza e formazione rivolta anche a temi di bioetica e ha alle spalle una proficua collaborazione con importanti istituzioni nel settore.

 

Manuela, la tua formazione accademica parte dalla Filosofia, ma è segnata dall’interesse per la cura.

Mi sono laureata in Filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e la scelta di questo Ateneo aveva uno scopo ben preciso: avvicinarmi alla Filosofia con un approccio pratico, desideravo poter ritrovare la Filosofia nella realtà ed utilizzarla per la realtà.

Quando ero al liceo, intorno al quarto anno, ho sviluppato l’idea di iscrivermi a Medicina, perché mi sembrava che fosse l’ambito in cui desideravo operare. Amavo tantissimo la Filosofia, era la mia materia preferita, ma ancora non l’associavo alla possibilità di una professione e, inoltre, mi sembrava molto lontana dal mondo in cui mi immaginavo inserita come professionista.

Poi ho approfondito il mio sentire, grazie anche ad una serie di persone e stimoli esterni, e ho compreso meglio la mia vocazione: il mio desiderio non era tanto quello di “curare” la malattia ma di capirne il senso e il rapporto con l’essere umano, la società, l’umanità. Il mio pensiero si è fatto sempre più complesso e articolato; ho iniziato a capire quanto fosse importante per me l’indagine filosofica e come le questioni etiche rappresentassero il fulcro delle mie domande.

 

L’interesse per la Bioetica è nato quindi in questo contesto?

Sì, una volta entrata all’Università ho costruito il mio percorso di studi accademici su questi interessi, specializzandomi sempre di più. Ho sviluppato poi le mie tesi di laurea sui temi della genetica, eugenetica e enhancement e contemporaneamente ho iniziato a collaborare con la Consulta di Bioetica Onlus, un’istituzione storica nella bioetica Italiana, e con il CEFF, Comitato etico di fine vita.

Queste collaborazioni mi hanno dato la possibilità di fare ricerca, scrivere, formarmi, essere attiva, partecipare al dibattito, confrontarmi con medici, filosofi, scienziati, studiosi internazionali di grande prestigio e competenza. Ho poi seguito corsi di perfezionamento, seminari e convegni accademici, partecipando anche come relatrice. Ho infine frequentato un Master in Consulenza e Pratiche filosofiche e ho dato così maggiore forma e concretezza alla mia professionalità: oggi mi occupo di ricerca, divulgazione, formazione e consulenza e la bioetica è uno degli ambiti in cui opero.

 

Come descriveresti la Bioetica?

Il termine bioetica è costituito da due parole greche: bios (vita) e ethos (morale, etica) ed è stato coniato intorno al 1970 dal cancerologo statunitense Van Rensselaer Potter. Con questo termine, Potter intendeva mettere in relazione le scienze della vita con il sistema morale e di valori degli esseri umani.

Ho scelto bio- per indicare il sapere biologico, la scienza dunque dei sistemi viventi; e ho scelto -etica per indicare il sapere circa i sistemi di valori umani.

Van Rensselaer Potter

Vi è poi, un’altra definizione, quella di Warren T. Reich, che è divenuta ormai una definizione classica.

Lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto tale condotta sia esaminata alla luce di valori e principi morali.

Warren T. Reich

Oggi possiamo definire la bioetica come un ambito di studio e di ricerca multidisciplinare che si occupa delle questioni e degli interrogativi morali e etici in relazioni alla medicina, alle cure sanitarie, alla ricerca e alla sperimentazione scientifica. Nella bioetica coesistono e dialogano tra loro varie discipline, tra cui la filosofia, la biologia, la medicina, la genetica, il diritto, ecc

La Bioetica clinica, poi, è un’applicazione delle conoscenze e dei principi della Bioetica alla pratica clinica e sanitaria.

 

Il Governo è attualmente impegnato nella elaborazione di un Decreto per il riordino dei Comitati etici, fondamentali per il corretto e pieno svolgimento di tutto il percorso di ricerca e sviluppo dei farmaci. Cos’è un Comitato etico e di cosa si occupa?

Se ci riferiamo ai Comitati etici per la ricerca, a partire dalla dichiarazione di Helsinki del 1975, questo tipo di Comitato etico è ormai considerato elemento fondamentale della strategia di protezione dei soggetti coinvolti nella ricerca e nella sperimentazione biomedica. Sono composti da esperti di vario genere e sono definiti dalla Direttiva del 2001 del Parlamento Europeo come

Organismi indipendenti composti da personale sanitario e non, incaricati di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti della sperimentazione e di fornire pubblica garanzia a questa tutela, emettendo un parere, prima dell’inizio di qualsiasi sperimentazione clinica, sul protocollo di sperimentazione, sull’idoneità degli sperimentatori, sulle strutture e sui metodi e documenti da impiegare per informare i soggetti della sperimentazione prima di ottenerne il consenso.

Per quanto riguarda l’Italia, l’art. 1 del Decreto del Ministero della Salute 8 febbraio 2013 (Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici) li definisce come

[…] organismi indipendenti che hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere delle persone in sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di tale tutela.

E attribuisce loro anche la possibilità di svolgere, in determinati contesti, funzioni consultive e di proporre iniziative di formazione di operatori sanitari relativamente a temi in materia di bioetica.

 

I temi di eutanasia, suicidio assistito e omicidio del consenziente sono al centro di un aspro ma ricco dibattito politico e sociale. Si tende a farne una questione unica, ma si tratta di ambiti ben segmentati, anche e soprattutto sotto il profilo giuridico. Dal punto di vista bioetico, quali sono le differenze?

La chiarezza dei termini è fondamentale perché all’interno di un dibattito pubblico è importante che tutte le parti utilizzino un linguaggio e dei significati comuni e condivisi.

L’eutanasia e il suicidio assistito hanno in comune il fatto che entrambi gli atti sono volti a procurare la morte del consenziente, cioè della persona che ha liberamente e consapevolmente espresso la volontà di porre fine alla propria esistenza, attraverso la somministrazione di un farmaco. In entrambi i casi, nei paesi in cui sono ammesse queste pratiche, le richieste di questo tipo sono valutate attentamente da una o più commissioni di esperti che analizzano il quadro clinico, il livello di compromissione della qualità della vita e la capacità del paziente di esprimere una decisione pienamente libera e consapevole.

Vi sono, però, delle differenze sostanziali tra le due pratiche; le più importanti riguardano la partecipazione del richiedente e l’azione del medico.

Nell’eutanasia il richiedente non ha una partecipazione attiva, è il medico a somministrare il farmaco letale, solitamente per via endovenosa. Nel suicidio assistito, invece, il richiedente auto-assume in modo indipendente il farmaco.

Dal punto di vista dell’azione del medico, nell’eutanasia il medico compie un’azione diretta somministrando il farmaco al paziente. Nel suicidio assistito, invece, ha un ruolo, appunto, assistenziale nella preparazione del farmaco che verrà assunto autonomamente dalla persona malata.

 

Nel nostro Paese com’è la situazione, dal punto di vista giuridico?

In Italia, la pratica dell’eutanasia costituisce reato di Omicidio del Consenziente

Chiunque cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.

Articolo 579 – Codice Penale

Il suicidio assistito, invece, è legittimato. In particolare, la Sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale (nota come Sentenza Cappato-DJ Fabo), ha elencato alcuni elementi che possono giustificare tale pratica. Di fatto, tuttavia, non viene praticato.

 

In assenza di una legislazione, di recente il Comitato Etico dell’ASUR Marche è stato chiamato a valutare se un paziente di 43 anni tetraplegico da 10 che voleva porre fine alle sue sofferenze possedesse i requisiti necessari per l’accesso legale al suicidio assistito.

Scrivendo il proprio parere, il Comitato Etico ha sottolineato la difficoltà di fornire una risposta oggettiva su un argomento soggettivo come la sopportabilità della sofferenza.

Mentre il dolore fisico può trovare riscontri oggettivi nella sua quantificazione, più difficile rilevare lo stato di non ulteriore sopportabilità di una sofferenza psichica.

Molti dei temi di cui si occupa la Bioetica appartengono alla categoria della complessità soggettiva: quali sono gli strumenti principali che la supportano in questo difficile compito?

Come spiegavo prima, la bioetica è un campo di ricerca multidisciplinare e, in quanto tale, sfrutta strumenti di vario tipo.

Se ci riferiamo a questioni biomediche e di bioetica clinica e alla valutazione di casi specifici, uno dei riferimenti classici per l’analisi dei quesiti etici è il modello dei quattro principi formulato da James Childress e Tom Beauchamp.

I quattro principi sono:

  • il principio di autonomia, che sancisce il diritto dell’individuo all’autodeterminazione h implica la valutazione del livello di autonomia per misurare il benessere del paziente e la qualità di vita
  • il principio di non maleficenza, secondo il quale è importante non nuocere al paziente e che impone di valutare i possibili danni e rischi che trattamenti o sperimentazioni possono arrecargli, che non devono essere superiori ai benefici
  • il principio di beneficenza, che comporta la valutazione di decisioni volte a promuovere e realizzare il maggiore benessere per il paziente e ha lo scopo di bilanciare il principio di non maleficenza
  • il principio di giustizia, secondo cui pazienti uguali devono essere trattati in modo uguale e le risorse devono essere distribuite e allocate tra i pazienti senza commettere ingiustizie.

Questi principi costituiscono un buon punto di partenza nell’analisi ma ovviamente non possono essere applicati in modo assoluto e rigido, e devono tener conto della specificità del singolo caso. Inoltre, la complessità della realtà e i diversi orientamenti etici e morali esistenti, non ci permettono di formulare definizioni universali e definitive.

Per esempio, come si definisce il concetto di “benessere” e come lo si misura? Come si agisce in contesti in cui le risorse sono limitate? Quando il rapporto medico-paziente è davvero equilibrato e il paziente può realmente esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione?

 

Quindi, oltre ai principi cui facevi riferimento poco fa, esistono altre fonti…

Sì. Insieme ai principi vengono messi in campo altri numerosi strumenti come la letteratura e le competenze (mediche, scientifiche, giuridiche, filosofiche, psicologiche, statistiche), ma anche le riflessioni filosofiche, sociali, politiche, etiche, morali e religiose. Vengono  valutati i documenti e le convenzioni, come la Dichiarazione di Helsinki e la Convenzione di Oviedo, gli studi ufficiali effettuati sulla materia e l’archivio di casi già svolti.

L’analisi è minuziosa e prende in considerazione elementi importanti come la biografia, i valori e i principi etici del paziente, la presenza di un Consenso Informato e di un testamento biologico o di volontà specifiche espresse in vita.