Il dolore cronico è un problema che affligge un numero impressionante di persone al mondo. Si stima che almeno 100 milioni di americani ne soffrano, per un costo sociale (comprese le ore di assenza dal lavoro a causa del dolore) pari ad una cifra che oscilla fra 560 ed i 635 miliardi di dollari all’anno. Più di quanto impattano le malattie cardiovascolari, più del diabete, anche più del cancro.

I farmaci più impiegati per combattere il dolore cronico sono i derivati della morfina, gli oppioidi. Ma si tratta di composti caratterizzati da una lunga sequenza di effetti collaterali, fra i quali tolleranza e dipendenza. Nonostante ciò continuano ad essere molto prescritti, forse anche per la mancanza di valide alternative.

Chi non ricorda il Vicodin, inseparabile compagno del dr House che ha dato il nome alla seguitissima serie televisiva e, che, intorno alla sua dipendenza da idrocodone ha costruito il proprio personaggio?

Gli oppioidi agiscono su  recettori presenti in particolare a livello del midollo spinale (ma anche nel cervello ed in altre zone del corpo) e che mediano la trasmissione del dolore dalla periferia al cervello. Vi si legano sostanze prodotte dal nostro stesso organismo, che, non a caso, si chiamano oppioidi endogeni e comprendono le famosissime endorfine. Ci servono per affrontare le situazioni di fatica, per aumentare la nostra resistenza al dolore, per autosostenerci quando siamo in difficoltà.

Con questo stesso meccanismo (ma in maniera molto meno naturale e ovviamente non fisiologica, ma farmacologica) agiscono i derivati della morfina. Bloccano la trasmissione del segnale del dolore al cervello, che quindi non la può elaborare e rendercela percepibile: la causa del dolore è ancora lì, ma noi semplicemente non lo sentiamo più.

Negli ultimi 10 anni le prescrizioni di oppioidi sono aumentate del 33% e le loro vendite del 110%. Contestualmente (e non senza un preciso legame con questo fenomeno) la dipendenza da oppioidi è dilagata. La morte di Prince ha reso famosa una molecola appartenente a questa categoria, il Fentanyl. Si tratta di un farmaco impiegato nelle procedure di anestesia, diventato droga d’abuso. Oltre al problema dell’abuso, il Fentanyl presenta caratteristiche di difficilissima gestione: è fino a 100 volte più potente dell’eroina e costa infinitamente meno.

La diffusione di queste nuove sostanze ha rivoluzionato il panorama delle tossicodipendenze, tanto da spingere il Governo statunitense a dichiarare guerra alle droghe, che stanno mietendo vittime come mai prima d’ora. Le nuove abitudini voluttuarie non sono un problema limitato al continente americano: si stanno trasferendo a gran velocità anche da noi. Ecco perché è importante pensare a soluzioni gestibili nel lungo termine.

La possibilità di ridurre o, al limite, azzerare la dose di antidolorifico per il trattamento di gravi problemi clinici quali le ustioni estese attraverso l’utilizzo della Realtà Virtuale rappresenta uno snodo cruciale dal quale partire per combattere il problema delle dipendenze.

La procedura più nota negli studi di settore è stata sviluppata pensando ad una delle esperienze di dolore prolungato più profonde, quella delle ustioni estese: SnowWorld è un mondo fatto di pupazzi di neve, pinguini, palle di neve e animali preistorici tipici delle ere glaciali. Il suo utilizzo riduce in maniera significativa (osservata attraverso la Risonanza Magnetica) l’attività delle aree cerebrali connesse alle sensazioni dolorifiche. Questo fenomeno ci dice che la sensazione del dolore ha una componente variabile in funzione delle condizioni in cui il paziente si trova, sulla quale possiamo agire per ridurla.

SnowWorld è stato ideato e sviluppato da due psicologi americani, David Patterson e Hunter Hoffman e garantisce un effetto di sollievo dal dolore che può durare fino a 48 ore.

Il meccanismo alla base del suo funzionamento è, a grandi linee, quello della distrazione dal dolore, che ne riduce la percezione (a livelli paragonabili a quelli ottenibili con il farmaco) riducendo i livelli di stress ad esso connessi ed aumentando la resilienza del paziente. Questo effetto viene massimizzato della simultanea presenza di stimoli uditivi e visivi. E’ interessante adesso studiare le conseguenze dell’interazione con altri stimoli, come il tatto e l’olfatto e il tipo di suono che produce l’effetto antidolorifico migliore.

Gli studi effettuati finora ci consentono di stabilire che è importante che la realtà virtuale sia immersiva, che abbia un ampio campo visivo (circa 60 gradi), che sia coinvolgente.

L’abbattimento dei prezzi dei dispositivi digitali ha reso dispositivi quali la Realtà Virtuale più accessibili per le strutture cliniche, che, in numero gradualmente crescente, si stanno interessando alla promettente novità.