La resistenza agli antibiotici riguarda tutti: il loro uso deve essere limitato alle circostanze individuate dalle evidenze scientifiche.

I superbatteri sono ceppi di microorganismi diventati resistenti all’azione degli antibiotici in seguito a mutazioni genetiche.

La situazione sanitaria dal punto di vista delle infezioni associate a questi germi è estremamente seria, tanto da essere arrivata al tavolo della seduta plenaria delle Nazioni Unite. Il mese scorso ONU ha votato un approccio coordinato all’antibiotico resistenza, come minaccia globale per la salute.

Le stime parlano di 10 milioni di morti entro il 2050. Ma già oggi i morti accertati sono 23.000 ogni anno in un Paese come gli Stati Uniti (dati CDC).

La strategia per fronteggiare questo problema è duplice. Da un lato è necessario utilizzare in maniera più razionale le risorse oggi a nostra disposizione, sia dal punto di vista farmacologico che comportamentale. Dall’altro è indispensabile incentivare la ricerca per sviluppare nuove molecole attive sui batteri resistenti.

Poiché tutti i farmaci devono essere assunti solo quando effettivamente se ne presenti la necessità e dato anche che gli antibiotici non rientrano fra le forme di automedicazione, essi devono essere presi solo su prescrizione medica. Una volta iniziato il trattamento, questo deve essere portato a termine. In caso avanzassero dosi di antibiotico, dobbiamo evitare di assumerle in caso di una successiva infezione.

Diffusa è la convinzione che gli antibiotici curino anche infezioni a eziologia diversa oltre a quella batterica. Mentre l’84% dei cittadini sa dell’azione antibatterica, solo il 41% è al corrente del fatto che non siano efficaci su virus (in particolare quello influenzale) e funghi.

Ricorrere all’antibiotico che ha funzionato su un nostro amico, parente o semplice conoscente non è una grande idea. Per i farmaci non vale la teoria del passaparola, ma le regole della medicina basata sulle evidenze. Non abbiamo nessuna prova che l’infezione del nostro interlocutore sia anche la nostra, né che quella sia la molecola efficace per noi.

Questo significa anche che non dobbiamo chiedere al medico di prescriverci l’antibiotico che a nostro parere funziona, né al farmacista di dispensarcene uno senza ricetta. Quello che, invece, è auspicabile che facciamo, è chiedere a medico e farmacista informazioni circa il nostro stato di salute, la causa che lo ha generato e le possibili terapie o prevenzione.

Di estrema importanza rispettare le norme igieniche. Lavare bene e frequentemente le mani riduce drasticamente il rischio di infezioni. Se evitiamo (nei limiti del possibile) contatti con malati, abbassiamo ulteriormente il pericolo di contrarre un’infezione.

I vaccini, argomento di conversazione scientifica ricorrente nell’ultimo periodo, sono un ottimo sistema per prevenire infezioni potenzialmente mortali. Sono, per esempio, l’unico sistema conosciuto per prevenire la meningite. Il recente e temuto fenomeno della riduzione delle coperture rende necessaria una campagna di informazione che spieghi come funzionano i vaccini, perché sono efficaci e, soprattutto, cosa rischiamo rinunciando ad essi, sia in termini individuali che collettivi.

Uno dei frangenti considerati maggiormente a rischio dal punto di vista delle infezioni resistenti, è quello del ricovero ospedaliero. Perché le infezioni ospedaliere sono così pericolose?

A causa dell’utilizzo di potenti disinfettanti i ceppi batterici che sopravvivono nell’ambiente ospedaliero sono selezionati. Sopravvissuti a molecole normalmente efficaci a causa di mutazioni genetiche che hanno conferito loro caratteristiche di resistenza, non cederanno facilmente sotto i colpi dei comuni antibiotici. Uno dei germi di cui si parla di più è lo Staphylococcus aureus  (chiamato anche Golden staph), comunemente presente sulla nostra cute e a livello della mucosa nasale, che facilmente va incontro a mutazione. Quando si configura un quadro di indebolimento immunitario, abbastanza frequente nel paziente ospedalizzato, può crescere, moltiplicarsi, fino a colonizzare l’organismo, resistendo all’azione degli antibiotici. Al fine di evitare la sepsi (che comunque rimane un’evenienza che ha una certa probabilità di verificarsi), è quindi necessario ricorrere alla somministrazione di molecole diverse da quelle comunemente usate.

In ambiente ospedaliero le iniezioni, i prelievi, l’inserzione di flebo rappresentano potenziali punti di inserzione di batteri che vivono sulla superficie cutanea e che, in questo modo, hanno la possibilità di penetrare nel circolo sanguigno e dare luogo ad infezioni.

Anche l’utilizzo di cateteri espone a questo rischio.

Ma, in assoluto, gli eventi a maggiore rischio sono le procedure chirurgiche. I batteri antibiotico resistenti causano il 39% delle infezioni post-chirurgiche (secondo Lancet).

Il fenomeno della resistenza agli antibiotici riguarda la popolazione mondiale nella sua globalità. Noi tutti, attraverso i nostri comportamenti quotidiani, abbiamo un margine di intervento non trascurabile: disponiamone per contenere le conseguenze di questo fenomeno potenzialmente catastrofico.