L’Alzheimer è una patologia neurodegenerativa che causa perdita di memoria, disorientamento ed incapacità di ragionamento, che portano il malato alla completa dipendenza da sostegni esterni.

 

Alzheimer: la patogenesi

Secondo le teorie più accreditate sulla sua origine, questa patologia nascerebbe dall’accumulo di una proteina mutata. Nel paziente colpito dalla malattia, una proteina coinvolta nella replicazione cellulare (la proteina tau) viene sintetizzata in maniera difettosa.

L’alterazione rende impossibile il suo metabolismo e ne causa l’accumulo nel cervello: le placche che così si formano costituiscono la sostanza amiloide. La presenza di depositi di proteina difettosa scatena la reazione infiammatoria del tessuto cerebrale, che si propaga e causa la morte dei neuroni.

 

Il decorso e i sintomi

L’area del cervello colpita precocemente dalla distruzione neuronale è l’ippocampo, sede della memoria a breve termine e della capacità di orientamento. Infatti, i sintomi evidenti nei primi anni della malattia sono l’incapacità di ricordare eventi del passato recente e la difficoltà a trovare strade in luoghi del tutto familiari.

Successivamente, viene intaccata anche la corteccia cerebrale, che ospita i neuroni deputati all’integrazione fine del ragionamento, del pensiero e dell’umore e della memoria a lungo termine. La corteccia è la parte più nobile del sistema nervoso centrale, quella più recente dal punto di vista evoluzionistico. Ecco perché, nel lungo periodo, i pazienti perdono la capacità di formulare ragionamenti anche semplici e dimenticano anche eventi accaduti nel lontano passato.

 

Alzheimer: le ripercussioni personali, del caregiver e collettive

Si tratta di una patologia estremamente impattante, a tutti i livelli. Sui malati, in prima persona, grava certamente il carico maggiore.

Tuttavia, non è possibile sottovalutare le ripercussioni sulle persone che stanno loro vicine e li assistono lungo tutto il doloroso percorso, fino alla morte.

La malattia ha anche risvolti sociali importanti. La spesa mondiale per anno legata a questa patologia è pari a 818 miliardi di dollari.

 

Lo stato dell’arte della ricerca

Per le ragioni sopra citate e anche per il progressivo innalzamento dell’età media nei paesi industrializzati, la ricerca nel farmaceutico è molto attiva negli studi su una possibile terapia.

Negli ultimi vent’anni siamo stati più volte molto vicini ad una soluzione, ma tutte le volte il risultato è stata una delusione. Molecole considerate promettenti nelle fasi precliniche si sono poi rivelate inefficaci in sede di sperimentazione clinica.

Ad oggi la medicina non ha alcun farmaco a disposizione per trattare le cause della patologia e molto poco anche per i sintomi.

E’ di qualche settimana fa la notizia del successo di un anticorpo monoclonale (aducanumab) nelle fasi precoci di valutazione. Ma il percorso è ancora lungo.

 

La terapia genica

Mentre gli studi in campo biofarmaceutico proseguono, la comunità scientifica ha aperto un ulteriore varco, quello della terapia genica.

E’ quanto accaduto presso l’Imperial College di Londra, nel corso di uno studio che ha evidenziato la scoperta di un gene (PGC1 alfa) attivo nel metabolismo della proteina beta amiloide. Ciò ha attivato una strategia di ricerca alternativa: quella del possibile inserimento del gene sano nei neuroni malati (terapia genica).

La sperimentazione è stata condotta sul modello murino della malattia. Il gene è stato somministrato all’animale prima della formazione delle placche amiloidi, direttamente nelle aree più colpite, ossia ippocampo e corteccia.

In linea con le aspettative, la terapia genica ha bloccato la deposizione di sostanza amiloide. A distanza di 4 mesi, l’animale ha mostrato segno di miglioramento nelle manifestazioni cliniche della malattia e nelle performance mnemoniche.

 

Gli obiettivi della terapia genica dell’Alzheimer

I possibili obiettivi di questo trattamento con terapie avanzate sono costituiti dalla prevenzione della degenerazione amiloide o dall’arresto della sua progressione.

E’ veramente presto per affermare che siamo vicini alla soluzione del problema Alzheimer. Il passaggio dalla sperimentazione animale a quella umana potrebbe non garantire la stessa efficacia (perché il modello murino di malattia è molto diverso rispetto a quello umano) né la sicurezza necessaria.

Tuttavia questo risultato è importante per diverse ragioni. Anzitutto perché suggerisce un nuovo target per il design dei farmaci (il gene PGC1 alfa e la proteina da lui codificata). E, in secondo luogo, perché comunque lo si voglia vedere è un passo avanti nel raggiungimento di una terapia sicura ed efficace.