Tempo, morte e solitudine sono le paure ancestrali dell’uomo, le sue eterne ed indesiderate compagne. Ciò che lo spinge a dotarsi reattivamente di robusti strumenti compensativi, responsabili di grandi successi personali e professionali. Ma contestualmente anche ciò che è capace di annientarlo.

Un aspetto della nostra vita che oggi, malgrado lo stuolo di strumenti che abbiamo a disposizione, o forse proprio per questo, gestiamo
ancora peggio che in passato.

 

FINE VITA: NON C’È TEMPO

Il fine vita è ragionamento da aule di Parlamento. Non ci riguarda.

È per evitare di invecchiare e morire, per sfuggire alle angherie del tempo che corriamo incessantemente. Scappiamo con scatti degni di velocisti dotati, senza avvertire stanchezza. Stiriamo le rughe ed evitiamo di riflettere troppo, convinti che queste attività passive siano incompatibili con i nostri ambiziosi scopi.
I ritmi forsennati sono diventati il parametro indicativo del nostro livello di vitalità e persino del nostro diritto a campare e ad essere considerati dalla società in cui viviamo. Perché chi si ferma è perduto.
Per scappare alle grinfie della nostra scadenza più temuta ne evitiamo anche il solo pensiero. Non la nominiamo, non la consideriamo.

 

FINE VITA: POSSIAMO SPERIMENTARE LA SOLITUDINE?

Ed è nel tentativo di non sperimentare mai l’isolamento che ci circondiamo di persone. Anche nelle circostanze più private, che in altri momenti storici avremmo desiderato proteggere da sguardi indiscreti.

I social media entrano nelle nostre case e ci accompagnano nei convivi serali. Tutto ciò ci da la sensazione di non essere mai abbandonati a noi stessi, obbligati a guardarci dentro.

 

FINE VITA: IL CORAGGIO DI PARLARE DELLA MORTE

Tempo, morte e solitudine sono anche i temi cardine del bel libro di Antonio Polito che ho letto da poco.
Prove tecniche di risurrezione racconta di una fuga e di un ripensamento. Di un errore che ha fatto il suo dovere, ossia quello di scatenare una riflessione.

Polito è un analista di situazioni delicate di ritorno. Recupera il loro significato, ma solo dopo averlo negato. Perché è solo grazie ad un’esperienza dolorosa, ad una elaborazione faticosa, quasi insopportabile che possiamo accettare di non comprendere. Abbandonarci a noi stessi, al nostro destino di uomini, nel senso più completo e terreno della parola.

 

SUL FINE VITA POSSIAMO MIGLIORARE

Naturalmente ciò che ha attratto la mia più viva attenzione è racchiuso nel capitolo che si occupa tout court della gestione del fine vita.

Che tristezza morire da soli in ospedale…
Non voglio correre il rischio di essere fraintesa. Le strutture sanitarie sono pilastri della nostra sanità, luoghi di cura che portano salute, benessere, assistenza a tanti pazienti. Ogni giorno, silenziosamente, senza
grandi clamori.
Ma non sono il posto giusto per congedarsi dalla vita, per dire addio a questo mondo, ai nostri cari, alle persone che hanno contato di più nella nostra esistenza. Coloro a cui vorremmo tenere la mano, circondati
dagli oggetti che hanno per noi un significato, che hanno contato qualcosa.

È difficile parlare di questo argomento. Chi mi segue è abituato a leggere di innovazione, entusiasmo per nuove soluzioni di cura. Di farmaci straordinariamente efficaci che hanno cambiato il corso della storia di
malattie incurabili.

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Ma la morte riguarda, con urgenza, molti pazienti e chi scrive (anche) per i pazienti non può dirsene estraneo.

 

SUL FINE VITA OCCORRE RECUPERARE DIGNITÀ

La verità è che è necessario accettare che al termine ci sia la morte è che parlarne può essere utile non solo ad esorcizzarne la paura, come già le generazioni a noi precedenti ben sapevano. Ma anche ad
attribuire il giusto valore a persone e situazioni. Il nostro valore, la nostra idea la conclusione a cui siamo approdati. Da veccjhi ce lo possiamo permettere.

 

IL VALORE DELL’EXTRATEMPO

Interessante il riferimento che Polito fa all’extratempo. Al tempo, cioè, che la vita concede rispetto all’incombenza di una diagnosi impietosa.

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Un tumore che, grazie ad un farmaco innovativo, garantisce qualche mese in più di vita. La possibilità di stringere per qualche settimana in più la mano della persona che amaiamo. Di baciare e accarezzare i nostri figli, facendo in modo che tutto quell’amore li permei per l’intera esistenza.
E allora il dibattito sul fine vita non può limitarsi al legiferare intorno all’eutanasia, tema peraltro fondamentale. Ma porta con sé l’obbligo morale per gli operatori sanitari di proteggere il più possibile questo
delicatissimo frangente. Con tutte le soluzioni che la farmacologia, scienza molto generosa, permette.
Un dovere che non si limita a chi lavora nel settore, ma che si estende a tutta la società civile, chiamata nella sua globalità ad evitare incaute fughe. A fermarsi, a restituire dignità ai malati irreversibili, alla vecchiaia, alla morte.