Le nanotecnologie sono rappresentate dall’insieme delle metodiche e delle tecniche usate per la manipolazione della materia su scala atomico-molecolare (misure dell’ordine di un miliardesimo di metro). Dal momento che un nanometro è cinquantamila volte inferiore al diametro di un capello, si tratta di procedure per lo studio di mondi infinitamente piccoli. Per intenderci, tali dimensioni sono compatibili con il DNA e tutte le strutture intracellulari.
Lavorando su scala così ridotta, si approfitta del vantaggio rappresentato dalla minore distanza fra le particelle che devono interagire fra loro e, di conseguenza, del minore consumo di energia per ottenere le medesime reazioni. In sostanza, le strutture (le cellule, ad esempio) reagiscono più facilmente.
Su questa scala i materiali manifestano proprietà molto particolari. Una di queste è il cosiddetto “effetto loto”. Osservando il comportamento della natura, si è scoperto che la superficie del nasturzio (un fiore utilizzato anche per preparazioni alimentari) viene mantenuta naturalmente pulita grazie alla sua rugosità e idrorepellenza, che lascia scivolare via l’acqua, la quale trascina con sé i detriti. Questo fenomeno è stato studiato a lungo, nel tentativo di riprodurlo per creare sistemi autopulenti. Possiamo vedere uno dei risultati di queste ricerche sui muri delle nostre case. Le pitture per esterni vengono infatti formulate in maniera che risultino non solo impermeabili all’acqua, ma anche in grado di essere da essa “lavati”.
Sempre allo scopo di cogliere nella natura dei suggerimenti che possano avere applicazioni pratiche gli scienziati hanno analizzato il fenomeno secondo il quale le piante aprono e chiudono dei nanopori adibiti alla traspirazione fogliare a seconda del loro “stato di salute”, per creare dei sistemi che consentissero di trasferire dispositivi nanometrici su chip. Si tratta dei cosiddetti lab-on-a-chip.
Un altro evento che si realizza in natura su scala nanometrica è la fotosintesi clorofilliana, la serie di reazioni attraverso le quali le piante producono glucosio e ossigeno a partire da acqua, sali minerali e radiazioni ultraviolette. Replicarlo in laboratorio significherebbe avere a disposizione energia illimitata. E’ su questo progetto che si basa in parte la collaborazione fra ENI e MIT (Massachussets Institute of Technology).
Un ulteriore esempio di approccio bioispirato è la produzione di adesivi sintetici sulla base dell’osservazione della capacità dei gechi di arrampicarsi sui muri e restare appesi ai soffitti. Questi curiosi rettili riescono nella loro impresa grazie alla presenza sulle loro zampe di nanopeli che sviluppano un effetto ventosa: attivati aderiscono al muro, disattivati consentono all’animale di spostarsi.
Le applicazioni delle nanotecnologie sono veramente numerose e abbracciano i più svariati settori della scienza e della tecnologia. Per capire in quale modo queste procedure possono essere sviluppate con modalità funzionale alla nostra salute, analizzeremo le più importanti conseguenze nel settore della nanomedicina.
In farmacologia, le nanotecnologie consentono di regolare il rilascio di un farmaco. Questo significa che possiamo gestire la somministrazione di una medicina che deve essere assunta per periodi sufficientemente prolungati (o per sempre) attraverso l’impianto di un supporto che la rilasci con velocità controllabile. Il drug-delivery è uno degli step cruciali in fase di progettazione delle medicine: il supporto nanotecnologico permetterebbe di innalzare significativamente i livelli di qualità, da questo punto di vista.
Dispositivi attualmente in fase sperimentale, consentiranno di rilasciare farmaci in seguito all’effettuazione di test specifici. Un esempio paradigmatico delle applicazioni pratiche di questi congegni è il diabete di tipo 2. I pazienti che ne soffrono devono monitorare costantemente e più volte al giorno la glicemia e, in base ai valori rilevati, assumere la corretta dose di ipoglicemizzante. Tutte queste azioni possono essere svolte in maniera automatica e smart da un dispositivo che misura nel sudore presente sulla pelle la concentrazione di glucosio, il pH, l’umidità e la temperatura. Inviando successivamente i dati ad un tablet (o smartphone), lo delega nel regolare la quantità di antidiabetico da iniettare attraverso dei nanoaghi polimerici sensibili al calore. Si tratta di strutture flessibili e resistenti alle sollecitazioni meccaniche, realizzate in grafene drogato con oro in modo da aumentarne la reattività elettrochimica.
Pensate alla precisione con cui si potranno curare i disturbi, all’abbattimento di tutti gli effetti collaterali derivanti dalla somministrazione sistemica di molecole potenti, alle concentrazioni di farmaco che si potranno raggiungere nelle cellule bersaglio, per aggredire le malattie. La possibilità di azioni mirate asseconderà le esigenze sempre più urgenti di medicina personalizzata, rendendo realizzabili diagnosi, terapie ed interventi speciali per rispondere alle necessità di ogni singolo paziente.
Lo sviluppo di nanorobot consentirà addirittura di intervenire chirurgicamente nella singola cellula malata, di modificarne il DNA in vivo.
Il professor Mauro Ferrari, presidente e amministratore delegato del Methodist Research Institute di Houston è uno dei padri della nanomedicina. La sua formazione accademica è partita con una laurea in ingegneria meccanica in Italia, per proseguire con successive specializzazioni nel settore biomedico e fisico ottenute negli Stati Uniti. Lui stesso racconta, nel corso delle sue esposizioni, che la malattia che gli portò via la giovane moglie, il tumore, diventò un’ossessione tale da spingerlo nelle sue ricerche. Studi di successo, come nel caso del farmaco ancora sperimentale da poco presentato, che la comunità scientifica si aspetta che possa curare le forme tumorali della mammella ormai metastatiche. Il professor Ferrari, uno dei padri indiscussi della nanomedicina, ha portato avanti gli studi su questa molecola, che penetra direttamente nelle cellule metastatiche, eludendo i sistemi di controllo da esse messi in atto.
Anche nel settore diagnostico, le aspettative sono elevatissime. L’Istituto Italiano di Tecnologia, eccellenza del panorama nazionale nel settore nanotecnologico, si occupa da tempo di ingestible electronics. La cosiddetta elettronica digeribile si manifesta in forma di transistor introducibile nel corpo umano allo scopo di effettuare procedure diagnostiche. Questo significa che esami invasivi come le endoscopie in uso oggi, in futuro potrebbero essere realizzate semplicemente inghiottendo un oggetto delle dimensioni di una piccola compressa e destinato ad essere completamente digerito dal nostro organismo a lavoro ultimato.
Ai pazienti diagnosticati con retinite pigmentosa o degenerazione maculare (patologie che colpiscono i fotorecettori), è destinata la protesi retinica che sostituisce le strutture danneggiate dalla malattia. I fotorecettori sono elementi in grado di captare la radiazione luminosa e trasformarla in impulsi elettrici, che successivamente, inviano alla corteccia visiva attraverso il nervo ottico. Le protesi sono costituite da un polimero che presenta la loro stessa struttura molecolare.
Altro esempio di applicazione medica delle nanotecnologie è rappresentato dai nanoresistori che, colpiti da luce, emettono radiazioni in seguito all’oscillazione elettronica e si scaldano per effetto joule. Ecco un sistema che può essere inserito in vivo, attivabile dall’esterno mediante radiazione luminosa. La cosiddetta photodynamic therapy è indicata per la terapia mirata di tumori dei tessuti superficiali, ad esempio della pelle.
L’impiego sempre più intenso delle nanotecnologie consentirà di raggiungere risultati ambiziosi. Parallelamente, a causa del fatto che esse interagiscono con le unità fondamentali delle quali siamo costituiti e con il nostro codice genetico, sarà necessario normalizzare procedure e indicazioni. Non possiamo permettere che le gerarchie si ribaltino, lasciando che l’innovazione plasmi l’etica.