La comunicazione scientifica richiede attenzione, comprensione, spiegazioni chiare su come funzionano certi meccanismi ma anche compassione per la sofferenza dei malati

Il mondo sta cambiando. Ma non nella direzione che ci immaginavamo. Del resto, non è questa la forma più vera di cambiamento? Se le cose fossero andate come la maggior parte di noi si aspettava, saremmo stati semplicemente spettatori di un adeguamento ad una teoria già enunciata. Invece è avvenuto qualcosa di significativamente diverso e, in questo senso, di veramente dirompente.

Gli ultimi, importanti eventi politico-sociali di cui stiamo parlando oggi hanno disegnato una nuova scena mondiale. Hai voglia a bollarli come una forma di esasperato populismo…

Vi domanderete che posto trovino disquisizioni strettamente politiche nell’ambito di un blog scientifico come WELLNESS4GOOD. In realtà ciò che mi ha colpita è il nesso profondo che lega i rispettivi momenti di crisi nei quali politica e scienza versano.

La corruzione dilagante ha ormai assunto la connotazione di forma mentis alternativa, che contribuito ad allontanare i cittadini dalla politica, della quale non si fidano più. Questo ha portato al successo di forme parallele di amministrazione del potere, sia a livello centrale che locale. Gruppi di rappresentanti delegati dai cittadini attraverso regolari elezioni che hanno fatto del proprio maggiore punto di debolezza (l’inesperienza politica) una vera e propria forza.

Anche la medicina deve combattere contro questo fantasma, che ne ha screditato molti settori. Si pensi agli scandali delle mazzette per le forniture di dispositivi biomedicali, i cui appalti erano orientati verso il maggiore profitto di produttori e amministratori, a scapito della qualità dei devices. O alla tendenza a lucrare su qualsiasi tipo di spesa, tipica alle nostre latitudini. Dopo avere perduto la fiducia dei cittadini, soprattutto dopo che la si è tradita mettendo a rischio la loro stessa incolumità fisica, ricostruirsi un’immagine può essere un’operazione molto impegnativa.

L’espressione stessa Big Pharma, che letteralmente sottintenderebbe l’insieme delle multinazionali produttrici di medicinali, è connessa, nella mentalità comune, all’idea di lobby, concetto che da noi rappresenta (in maniera un po’ perversa, ma che poggia su spunti di realtà) la tutela del profitto di pochi a danno di molti. In questo senso lodevole l’iniziativa dell’Agenzia Europea del Farmaco, che ha pubblicato online tutte le documentazioni riguardanti i trials clinici dei farmaci approvati in Europa.

Anche la politica non può dirsi indenne da queste contaminazioni, se è vero, com’è vero, che in rare circostanze mette in cima alla hitlist dei parametri decisionali il bene collettivo.

La discrepanza fra i livelli fantascientifici raggiunti dal progresso tecnologico e i reali benefici portati al letto del paziente non fa che acuire il sentimento di sfiducia di chi soffre per una patologia cronica o terminale (o assiste un proprio caro) e intravede una possibilità di cura, ma è costretto a fare i conti con la sua indisponibilità. Le persone si rifiutano di capire le motivazioni per cui esiste un farmaco che cura l’epatite C ma non è disponibile per tutti perché costa troppo: pensano che siano i politici a dover trovare una soluzione, magari risparmiando su altri investimenti o tagliando degli sprechi. Da qui ad abbracciare la dimensione populista il passo è veramente breve.

Innovazione è solo un vocabolo abusato se non serve a migliorare la qualità della vita delle persone. Come spiegare al cittadino medio che Watson (il sistema di intelligenza artificiale sviluppato da IBM) ha salvato una donna giapponese da una forma particolarmente rara di leucemia, ma non può essere impiegato per curare suo figlio? Esiste, non è solo tecnologia potenziale, è prodotto. Ma, a causa dei costi, non è disponibile per la massa. Il pensiero che si rafforza è che il valore delle vite che possono diventare significative per la scienza (per le sue pubblicazioni, per i premi, per ottenere finanziamenti) è superiore a quello delle altre. Questo concetto è emotivamente troppo intenso per essere contraddetto da parametrizzazioni economico-politiche. Sul fronte comunicazione richiede attenzione, comprensione, spiegazioni chiare su come funzionano certi meccanismi ma anche compassione per la sofferenza dei malati. E in politica impegni seri, da parte di chi ha il potere di decidere in cosa è giusto investire. Potere che non può essere disgiunto dall’assunzione di precise responsabilità.

A fronte di investimenti colossali il Morbo di Alzheimer non ha ancora una cura. Ci siamo andati vicini in molte occasioni, ma tutte si sono rivelate fallimentari. Dopo l’ultimo, cocente insuccesso ci siamo resi conto che conviene, per il momento, investire denaro (e si parla, logicamente, di quantità infinitamente inferiori) nella prevenzione, nel miglioramento dello stile di vita, nell’assunzione di abitudini alimentari corrette. Grazie a questo, e senza averci speso cifre folli, i casi di demenza sono oggi, in controtendenza rispetto all’assenza di una cura, globalmente in calo.

La scienza presenta parecchi gradi di complessità. Tuttavia il buonsenso ci aiuta a fare chiarezza, a comprendere qual è l’innovazione nella quale vale la pena di investire grosse somme (sofosbuvir lo è, questo è garantito) e quali gli obiettivi  raggiungibili impegnando mezzi meno dispendiosi con probabilità di successo comunque elevata.

La velocità nell’acquisizione di nuove frontiere tecnologiche e l’estemporaneità con la quale tali aggiornamenti accedono ai media e da essi vengono diffusi capillarmente è diversa rispetto a quella che caratterizza le capacità produttive, il funding, l’accertamento di efficacia e sicurezza. Da un lato abbiamo l’obbligo di aumentare il trasferimento tecnologico, dall’altro la consapevolezza che certi passaggi dalla ricerca all’industrializzazione di un prodotto siano step limitanti (nonostante la volontà) genera frustrazione.

La notizia di un risultato entusiasmante emerso nel corso di una sperimentazione viene riportata dai mezzi di comunicazione con un’enfasi tale da ingenerare la convinzione che si tratti di uno strumento terapeutico ormai disponibile per la massa. Accendere l’entusiasmo è molto semplice, spiegare le ragioni per cui occorre prudenza e pazienza rende impopolari e scatena insofferenza. Per questo è assolutamente necessario che la comunicazione scientifica sia consapevole.

Per esempio nel sottolineare che l’intervallo di tempo che deve trascorrere prima dell’approvazione di un farmaco per uso umano è un segnale positivo, che deve promuovere la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, che tutelano la sicurezza del paziente, vagliando ogni possibile rischio.

Se i metodi della comunicazione sono cambiati i nuovi canali vanno assecondati, anche dalle istituzioni, ancorché in maniera compatibile con i loro standard. Le agenzie del farmaco, i ministeri della salute, i grandi ospedali, gli enti di ricerca spesso non utilizzano i social networks, o li sotto-utilizzano o, ancora peggio, li impiegano facendo affidamento su un linguaggio criptico, non adatto alla comunicazione di massa, con il risultato di accrescere il distacco e generare antipatia. I più, non essendo in possesso degli strumenti per capire un linguaggio gergale, temono le ripercussioni negative che certe iniziative sanitarie possono avere sulla loro salute o non ne comprendono il beneficio. Il flusso di informazioni attraverso i social potrebbe fornire dati e spiegazioni più accessibili, estendendo il consenso del pubblico e permettendo un risparmio nelle politiche di prevenzione.

I sentimenti conflittuali dei cittadini, che, da un lato sanno che non possono fare a meno di medici ed ospedali ma dall’altro avvertono il distacco del mondo scientifico, scoprono alle strumentalizzazioni. E’ facile trovare avvoltoi capaci di insinuarsi nelle insicurezze del grande pubblico, di manovrare la sfiducia nelle istituzioni, per dirottare consensi verso la propria ideologia. Quasi sempre le teorie “alternative”, quelle che definiamo come pseudoscienze, sono più facili da implementare ed  economiche rispetto a quanto prescritto dalla medicina e funzionano sempre, non prevedono eventi avversi, zero possibilità di inefficacia.

Offrono certezze, al contrario della scienza, che sa di non sapere e dichiara apertamente quali sono i punti nei confronti dei quali è necessario ulteriore investimento di tempo, energie e denaro. La comunicazione scientifica deve trovare il modo di spiegare alle persone che sapere di non sapere non è una semplice citazione classica dotta, ma una forma elevata di consapevolezza, che, in ambito scientifico, ha una valenza se possibile superiore. E’ un segnale di allarme, una spia che si accende allo scopo di innalzare il livello di attenzione: come quando siamo in macchina e un lampeggiare nel cruscotto ci segnala che sta terminando il carburante. Ci dà la possibilità di fermarci per il pit-stop prima che il serbatoio si svuoti del tutto. Individuare correttamente gli aspetti che la scienza medica non ha ancora risolto ci permette di capire quali sono le direzioni nelle quali investire.

Non vi pare che la maniera con cui la comunità scientifica ha trattato la questione dell’antiscienza ricordi quella usata dai politici per definire i populisti? Snobbismo, denigrazione e sottovalutazione hanno fatto di un fenomeno altrimenti destinato a rimanere confinato entro ambiti molto più ristretti, una presa di posizione dilagante, che ha contaminato livelli sociali e culturali teoricamente incompatibili con le ideologie proposte.

Cosa è mancato, sia da parte di chi è chiamato a governarci che da coloro che amministrano il sapere scientifico, a tutti i livelli?

La capacità di ascolto, la disponibilità alla valutazione, all’accoglimento di un’opinione diversa, prima che questa diventi una vera e propria teoria parallela strutturata.