Recentemente, abbiamo assistito a numerosi cambiamenti nella maniera di intendere la terapia per malattie eterogenee come i tumori. Pur condividendo molte caratteristiche, i tumori si differenziano per i meccanismi patogenetici, le manifestazioni a carico dei singoli apparati, i criteri diagnostici ed i fattori prognostici. La classificazione strettamente tassonomica in voga fino a qualche anno fa, non sembra più soddisfare le esigenze di un tempo storico in cerca di soluzioni più coerenti.
In aggiunta, gli strumenti che la genetica mette a disposizione degli addetti ai lavori, consentono di intraprendere percorsi nuovi e potenzialmente più efficaci rispetto al framework terapeutico tradizionale. Si tratta della cosiddetta “medicina personalizzata”, ossia la progettazione di trattamenti medici in base alle caratteristiche individuali del paziente. Questa recente (ma non recentissima) acquisizione, è legittimata dal fatto che, pur possedendo lo stesso patrimonio genetico, gli esseri umani presentano varianti perfettamente fisiologiche del DNA, che non ingenerano di per sé malattie, ma che possono alterare la reazione ad uno specifico farmaco o all’attacco di uno stimolo patogeno. Pazienti diagnosticati con la stessa malattia, infatti, manifestano sintomi differenti e si comportano in maniera completamente diversa nei confronti della somministrazione degli stessi principi attivi. Il “polimorfismo genetico”, così è definito il fenomeno, può rappresentare un’opportunità per instaurare un trattamento farmacologico normalmente non attivo su quel tipo di patologia. Questo è precisamente ciò di cui si occupa la farmacogenomica.
Come si procede per arrivare a disegnare il trattamento tailored-designed? Attraverso la mappatura genetica del singolo individuo, il “genotyping“. Nella fase successiva, questo viene comparato con il genoma più probabile (per intenderci, quello che potremmo definire “normale”, ricavabile da “Progetto Genoma“) per evidenziarne gli scostamenti. Successivamente si cerca di capire se abbia senso individuare una terapia personalizzata.
Il cancro non è l’unica patologia che si avvantaggia di questa tecnica, tuttavia è quella che ne consente la più ampia espressione. I frequenti casi di resistenza all’azione dei farmaci, rendono la personalizzazione uno strumento indispensabile per scongiurare l’impossibilità terapeutica.
La gestione della personalized medicine richiede la collaborazione stretta fra più specialisti, a costituire una vera e propria task-force anti-cancro: i medici di base che seguono il paziente con cadenza quasi quotidiana devono interagire efficacemente con i biologi che seguono le procedure di typing e design, con gli oncologi che implementano la terapia e con gli ingegneri che si occupano del software per la gestione dei dati provenienti dal monitoring del malato.
Fin qui, l’aspetto più squisitamente scientifico, che ritrae i progressi straordinari della medicina nel settore della genetica e del drug management. Esiste, tuttavia, una questione umana che finora non abbiamo considerato. Il sovvertimento di quelli che sono stati per anni ritenuti i cardini dell’oncologia, non è stato rimpiazzato da granitiche certezze. Le nuove terapie offrono ulteriori chance, ma si tratta di procedere navigando a vista, esplorando caso per caso la situazione di ciascun paziente. Non esistono standardizzazioni, né statistiche significative cui appellarsi in sede decisionale.
Questo aspetto nebuloso della recente farmacologia, la sensazione di smarrimento legata all’impossibilità di aggrapparsi a speranze certe e dimostrate, accomuna medico e paziente. Entrambi vagano nella misty atmosphere, ormai impossibilitati a riprendere contatto con il riferimento tradizionale e in cerca di una nuova Stella Polare che ancora non fa capolino nel cielo della notte. Verso l’alba di un nuovo giorno…
Se volete una testimonianza di come la poesia e l’oncologia possano condividere contenuti, vi segnalo un pezzo del “New York Times”