Il pensiero laterale può farci uscire dai solchi tracciati dal confirmation bias, dalle deformazioni professionali e personali di cui è vittima la nostra capacità di giudizio.

In un interessante articolo apparso sul New Yorker qualche giorno fa, Elizabeth Kolbert scrive dei meccanismi illusori della conoscenza e di alcuni dei più importanti libri pubblicati di recente sull’argomento. Si tratta di acquisizioni sperimentali e riflessioni prodotte da scienziati cognitivisti che hanno lavorato sui percorsi che la nostra mente imbocca quando viene a contatto con concetti nuovi, quando contenuti inaspettati mettono in discussione le nostre certezze e confutano le nostre credenze.

Perché, nonostante ci vengano fornite prove, presentati fatti concreti che dovrebbero spingerci a farlo, siamo comunque reticenti a cambiare le nostre idee? Perché nella stragrande maggioranza dei casi rimaniamo sulle nostre posizioni? In altre parole, com’è possibile che riteniamo che le nostre idee, che sono pensieri e, come tali, prevedibilmente influenzabili da stati d’animo ed umori, volubili e soggettivamente arbitrarie abbiano più valore dei fatti?

E’ stupefacente osservare quanto siano fuorvianti i pregiudizi in base ai quali la nostra mente ci costringe a ragionare, se non li staniamo prima che facciano il loro “dovere”. Da bravi paradigmi, ci spingono a seguire i percorsi mentali già tracciati dai nostri convincimenti, per ragioni di convenienza e risparmio energetico, per assecondare meccanismi di difesa, per semplificare e fare ordine nella nostra mente.

Nonostante siano in buona fede, le loro conseguenze negative sulla nostra capacità di giudizio sono notevoli.

Gli studiosi definiscono uno dei fenomeni che configurano questo quadro cognitivo confirmation bias, descrivendo con questa espressione la tendenza che le persone hanno a credere alle teorie che supportano le proprie opinioni ed a rifiutare mentalmente quelle che le contraddicono. E’ proprio vero, allora, che la comfort zone è un luogo della mente da cui risulta molto difficile uscire. E’ questo che ci spinge a scegliere inconsapevolmente di frequentare le persone che, in termini generali, la pensano come noi, evitando nei limiti del possibile coloro che metterebbero in discussione i nostri riferimenti. Che ci dirotta nell’acquisizione delle informazioni, anche nell’ambito dei social media, verso obiettivi più coerenti con le nostre convinzioni.

Questo modello di analisi è perfettamente applicabile alla scienza. Parlando di fatti concreti e visibili agli occhi di tutti, di dati disponibili alla consultazione, di medici, ricercatori e politici disposti a spiegare pazientemente le motivazioni di determinate decisioni in materia di salute pubblica, non ci spieghiamo la resistenza ad accettare teorie scientifiche che davamo per scontate. Nonostante gli indiscutibili successi di alcuni presidi medici, ad esempio, un discreto (e rumoroso) numero di persone ritiene che essi non abbiano il valore che la comunità scientifica attribuisce loro.

Mi riferisco, come avrete capito, ai vaccini. La questione è famigerata, si trascina in maniera penosa fra tentativi di screditamento (da un lato) e produzione di dati positivi (dall’altro), in un palleggiamento continuo che non sta dando grandi frutti. Maggiore è la quantità di dati pubblicati che associano i cali nelle coperture alla ricomparsa di malattie tremende, più forte è l’opposizione della comunità antivax.

Avete mai ingaggiato una discussione con un antivaccinista? A me, ovviamente, è capitato più di una volta. E’ come cercare di sfondare un muro di gomma. Man mano che la conversazione procede, la vostra logica diventa sempre più ferrea. Cercate di affinarla, la mettete alla prova, al fine di pronunciare frasi che abbiano un senso preciso, che siano ordinate e dirette allo scopo. Vi risponde una persona la cui logica è momentaneamente fuori servizio, disattivata, che emette proclami apparentemente scollegati fra loro, privi di un costrutto razionale, ma forti per le loro implicazioni emotive ed ancestrali.

Parlerete di questioni diverse, osservandole da un differente punto di vista. Più che uno scambio, due monologhi.

Vi dirà che i vaccini hanno moltissimi effetti collaterali, che nessuno sano di mente esporrebbe mai il proprio bambino a simili rischi. Trascurando di fare riferimenti al pericolo che affronta un piccolino esposto a batteri e virus potenzialmente mortali (non andiamo tanto lontano: basta pensare ad un neonato che contrae la pertosse), ma con grande partecipazione emotiva, irrazionalmente ma comprensibilmente mosso dal bisogno di risparmiare ai propri figli un’esperienza che potrebbe creare loro danno. Non sto sostenendo che gli antivaccinisti siano sempre in buona fede (Andrew Wakefield è l’emblema dell’antivax premeditatamente criminale), ma che i loro ragionamenti sono emotivamente difficili da sconfessare di fronte all’opinione pubblica. Ciò che essa vede è un gruppo di scienziati supponenti (il mio è un tentativo di immedesimazione) che agita grafici e siringhe contro una comunità di persone in ansia per le sorti dell’infanzia a rischio di autismo (e di molto altro).

Quando si innescano polemiche di questo tipo, si ragiona su piani diversi: gli uni su quello della rigorosa, immanente logica galileiana, gli altri su quello viscerale junghiano degli archetipi collettivi. Sono due piani paralleli, e come tali privi di interferenze. Anche spingendoci all’infinito, all’estremo di un dibattito estenuante, non troveremo un luogo dei punti che soddisfi entrambe le funzioni, l’equazione di una retta che ne sancisca l’intersezione.

La comunicazione scientifica, unico, autentico trait d’union in questa vicenda fatta di contrapposizioni, ha il dovere di individuare una strategia alternativa che possa veicolare messaggi più efficaci. Il compromesso, probabilmente, non è nel rigore dell’evidence based, né, chiaramente, nell’abbandono alla superstizione. La soluzione deve essere cercata in un linguaggio comune, in un’esperienza condivisa, attraverso l’esercizio del pensiero laterale, quello che ci spinge ad uscire dalla comfort zone, l’unico in grado di farci uscire dai solchi già tracciati nella nostra mente, dalle deformazioni professionali e personali di cui è vittima la nostra capacità di giudizio.

“Reason is an adaptation to the hypersocial niche humans have evolved for themselves” – Hugo Mercier, Dan Sperber