Qualche settimana fa ho assistito ad un interessantissimo incontro organizzato dall’Istituto di Scienze Farmacologiche Mario Negri, parte di un programma più vasto di manifestazioni promosse da “Donne in Neuroscienze”, network di professioniste del settore.

Fra le preparatissime relatrici ascoltate durante le performances ho avuto la fortuna di incontrare Francesca Pischiutta, biologa e ricercatrice impegnata in studi sull’utilizzo delle cellule staminali nel trauma cranico. Forse non tutti sanno (e vale la pena ricordarlo) che il trauma cranico è la prima causa di morte per le persone al di sotto dei 45 anni nei paesi industrializzati. La pesantezza di questi numeri fa riflettere.

Da anni la ricerca insegue una terapia che, somministrata nelle immediatezze dell’evento traumatico, possa scongiurare non solo la morte, ma anche alcune delle più penose conseguenze, come la paralisi. Finora né gli studiosi né i malati hanno avuto la gioia di arrivare ad una conclusione tanto lieta.

La dottoressa Pischiutta spiega perché il trauma cranico è così tragicamente impattante sul nostro sistema nervoso. Lo fa con la disinvoltura di chi conosce alla perfezione la materia, ma anche consapevole dell’asperità dei concetti che esprime. Perché parlare di malattie neurologiche acute non è una passeggiata: ogni frase è un caso clinico, un paziente in un letto d’ospedale, un morto che gonfia le già sciaguratamente ricche statistiche.

Per farci capire la gravità della situazione Francesca ci spiega cosa avviene nel cervello appena dopo un trauma, per esempio dopo un incidente stradale. Successivamente all’impatto il sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale) va incontro ad una serie di reazioni biochimico-molecolari che hanno conseguenze devastanti. Nel tentativo di proteggersi mette in campo tutte le armi di prima linea: molecole e cellule dell’infiammazione. Si tratta di un meccanismo di difesa cieco, che spara a zero: un “fuoco amico” che, collateralmente, danneggia il tessuto. E’ il sistema che il cervello impiega per arginare il danno: sacrifica la porzione di tessuto colpita per salvare tutto il resto. Un po’ come amputare un arto per evitare che la cancrena si estenda a tutto il corpo.

Infatti, la catena di eventi porta, nel lungo periodo, alla formazione di una cicatrice. Il tessuto cicatriziale non funziona come quello sano: lo possiamo osservare quando ci procuriamo accidentalmente una ferita. In corrispondenza della lesione, la cute si ripristina ma non ha più peli né ghiandole sudoripare e anche il suo aspetto è decisamente peggiore rispetto alla pelle sana.

Immaginate cosa può accadere nel cervello. Gli esiti di una lesione non sono quantificabili né qualificabili. E’ sufficiente che essa si realizzi un centimetro più a destra o più a sinistra, perché le conseguenze siano totalmente diverse. In un caso, magari, il paziente non sopravvive, nell’altro si riprende completamente.

Francesca scandisce chiaramente le parole quando racconta alla sua platea che non esistono oggi farmaci in grado di arrestare la cascata di eventi che seguono il trauma cranico.

Questa frase suona come una condanna.

La mia mente torna indietro di qualche anno. Diversi anni, per la precisione. Nel 1999 mi sono laureata con una tesi neurofarmacologica, sulla possibilità di riparare i danni a carico del midollo spinale dopo un trauma o una patologia. La scienza brancolava nel buio. Nonostante il mio interesse e coinvolgimento, ho dovuto ben presto arrendermi di fronte al fatto che l’innovazione non avesse molto a che vedere con quell’argomento. Ricordo che il mio lavoro comprendeva dei cenni a quello che era allora l’astro nascente del panorama scientifico, le cellule staminali.

Proprio ciò di cui ora si occupa con successo Francesca! Potete facilmente immaginare come il mio interesse si sia catalizzato su di lei, che poteva riassumermi i passi avanti fatti in quel settore. Dal 1999 sono stati numerosi, dirompenti.

In realtà, lei spiega subito che i risultati degli sforzi profusi non sono ancora arrivati ad essere sperimentati sull’uomo. Ma anche che questi risultati ci sono e sono positivi. La difficoltà consiste nell’estrema eterogeneità della patologia (che può manifestarsi in tutte le possibili sfumature) e nel fatto che, per curare le conseguenze del trauma cranico, bisognerebbe convincere il cervello a non fare ciò che l’evoluzione ha ritenuto corretto facesse.

Quanto lavoro è stato fatto da allora. Quante persone, come lei, impegnate alacremente nel portare avanti le loro ricerche. Quanto entusiasmo per il successo di un test. Quanti momenti di sconforto nel sancire il fallimento di un progetto, nella vana ricerca di risposte chiare e precise. Per fare i ricercatori occorre talento, lungimiranza e molta pazienza. Bisogna saper guardare oltre. Oltre la propria attività, oltre le attrezzature sofisticate, oltre gli inutili appesantimenti della burocrazia, oltre anche la necessità di avere una personale soddisfazione nell’attività scientifica.

Bisogna guardare fuori da questo steccato, per poter intravedere i milioni di pazienti che, con le loro famiglie, attendono una cura. Questo trait d’union con la realtà, quella vera, è stato di notevole aiuto per Francesca. Sentire che il suo lavoro contribuisce ad avvicinarci ogni giorno di più ad una soluzione. Vedere una ragione valida per dedicarsi alle sue ricerche malgrado tutto. Per cogliere queste sfumature al ricercatore serve anche sensibilità.

Pochi giorni dopo avere conosciuto Francesca, quasi per un’ulteriore combinazione, ho saputo che la startup cofondata da una cara amica, Mary Franzese, ha sviluppato un prodotto rivoluzionario, che ha attratto numerosi investitori e le attenzioni del mercato. Sostanzialmente Neuron Guard ha brevettato un collare che, applicato immediatamente dopo il trauma, raffredda la testa, rallentando il processo infiammatorio che abbiamo detto essere il principale responsabile dei danni.

Un’idea geniale!

Insieme al suo socio Enrico Giuliani (già ricercatore universitario) Mary ha profondamente creduto nella loro idea e questa sicurezza l’ha sostenuta nei momenti di stanchezza e difficoltà. Lei è una ragazza minuta, dai lineamenti delicati: quando la osservi non sospetti della quantità di energia che è in grado di esprimere. Parlandole, il suo caratterino comincia a manifestarsi. Quando interagisci con lei, ne hai la certezza.

Francesca e Mary sono due donne di grande talento e forza, ma capaci di controllarlo, di dargli forma e valore. Due figure femminili pazienti e sagge, di grande sensibilità.

Il profilo ideale per un neuroscienziato! Le donne possono dare molto alle neuroscienze, perché le neuroscienze traggono infinito beneficio da tutte le qualità che loro sanno esprimere