Il cambiamento ci costringe a guardare dentro di noi, ad affrontare le nostre paure, il nuovo che diciamo di inseguire e che invece ci terrorizza.
Oggi è l’anniversario della morte del Mahatma Gandhi, caduto sotto i colpi di pistola di un estremista politico. Trovo questo fatto storico, così come l’intera storia del politico e filosofo indiano, simbolico e paradigmatico per discutere di cambiamento, l’argomento che mi piacerebbe trattare oggi nel blog. Gandhi è stato uno dei più grandi rivoluzionari della storia, uno che l’eversione l’ha esercitata con i guanti di velluto, con la parola e con l’atteggiamento resistente a qualsiasi provocazione. Alle violenze perpetrate dalle potenze coloniali ha opposto un messaggio di pacato ma deciso, incrollabile orgoglio.
Esaminando la circostanza storica con sufficiente distanza, cosa che possiamo tranquillamente fare oggi, non possiamo non individuare una macroscopica, apparente incoerenza. Perché ritenere pericoloso, e quindi ricorrere all’assassinio, un uomo che non minaccia aggressione, che non fomenta guerre? E’ proprio in questa paradossale contraddizione che troviamo il significato più profondo della dottrina di Gandhi. Nulla è più minaccioso del cambiamento in sé, niente è maggiormente sovversivo di una rivoluzione silenziosa. La differenza fra la sovversione (ad esempio quella generata dalla Rivoluzione Francese) e l’adesione ad un percorso di innovazione strutturale della società, ad un nuovo modo di pensare, prima ancora che di fare, è profonda.
La prima, nonostante il suo altissimo livello di rischio, trova paradossalmente più proseliti, perché dà sfogo a sentimenti ancestrali, alla rabbia repressa, al desiderio di violenza generato dall’insoddisfazione. La scienza, facendo del metodo galileiano il proprio vessillo, propone qualcosa di molto simile alla seconda. Guarda avanti, non si ferma, esplora territori ignoti, vuole spingere più in là i confini della conoscenza. E questo non è poi così rassicurante.
Facciamo un gran parlare di cambiamento, ma siamo proprio sicuri che sia quello che vogliamo?
Guardiamoci intorno, osserviamo i comportamenti ed ascoltiamo le parole di coloro che vivono accanto a noi, che lavorano con noi o con cui interagiamo a vario titolo. Queste donne, questi uomini vogliono davvero cambiare la realtà di cui si lamentano?
A giudicare dall’opinione espressa mediamente dalla popolazione nei confronti del progresso scientifico, non possiamo che rispondere negativamente a questa domanda. L’opposizione ai vaccini, la resistenza nei confronti delle sperimentazioni riguardanti le cellule staminali, il rifiuto degli OGM, l’odio nei confronti della ricerca di laboratorio che utilizza la sperimentazione animale, non sono altro che un’espressione reazionaria di rifiuto del cambiamento. Mi rendo conto che si tratta di una semplificazione. Esistono numerosi altri fattori che spaventano i cittadini. Ma è un’approssimazione con imprecisione non determinante.
Esistono altri fattori di timore, che tuttavia non spostano il fatto che il parametro determinante risiede nella volontà di conservazione di una realtà che, tutto sommato, anche se non del tutto soddisfacente, con tutti i suoi difetti, conosciamo. Qualcosa di cui abbiamo già preso le misure.
Come in un matrimonio in cui i coniugi non si amano più, sono persino infelici della loro unione, ma che non ricorrono alla separazione perché abituati l’uno all’altra e spaventati dall’incognita rappresentata da altre persone, con le quali dovrebbero rimettersi in gioco. Le persone che si oppongono alla scienza sono mediamente istruite. Stupisce quindi che, nel contestare le procedure mediche, non si rifacciano a concetti altrettanto logici, ma a costrutti mentali di natura esoterica, compatibili con livelli di cultura bassi, stridenti se immaginati in individui con titoli di studio elevati. Parliamo del rifiuto di un presidio medico che ha portato all’eradicazione di malattie che mietevano vittime in numero paragonabile a quanto fatto da guerre e carestie. Pensiamo al vaiolo, alla poliomielite, a quello che hanno rappresentato per l’umanità. O di credere veramente che in una fiala di acqua nella quale nessuna strumentazione, nemmeno la più accurata, rileva la presenza di molecole di altro tipo, ci sia veramente la “memoria” derivante da sostanze portate ad una diluizione infinitesima. Concetti verosimili nel Settecento, incompatibili con la realtà delle conoscenze attuali. Parliamo di gente erudita che dice no alla produzione di organismi geneticamente modificati in Italia, fingendo di non sapere che il nostro Paese acquista OGM di importazione e accettando di acquistare vegetali coltivati grazie all’impiego di ingenti quantità di antiparassitari. Di uomini e donne appassionati nella difesa dei diritti degli animali contro la sperimentazione di laboratorio, strumento purtroppo ancora oggi irrinunciabile per la ricerca, e che tuttavia non possiamo credere indifferenti alla sofferenza di tanti bambini (e delle loro famiglie) affetti da patologie genetiche, dal dolore di tanti pazienti colpiti dal tumore.
Se consideriamo il cambiamento tanto attraente perché lo rifiutiamo?
Perché ci costringe a metterci in gioco, a prendere in mano le sorti del nostro destino. E questo è quello che noi diciamo di volere, quando ancora non sappiamo esattamente di cosa stiamo parlando. Ovvero quando ci identifichiamo, pensando in termini filosoficamente romantici, nell’eroe che si impadronisce del proprio destino, all’Amleto che imbraccia “l’armi contro un mar di triboli”. Essere artefici della propria fortuna vuol dire lottare contro se stessi, contro i ragionamenti stereotipati che ci danno sicurezza, che rappresentano le nostre abitudini. Significa disinserire il pilota automatico che guida i nostri pensieri, costringerci a decisioni scomode.
Ma, soprattutto, diventare padroni del nostro destino significa guardare veramente in profondità, dentro noi stessi, affrontando le nostre paure più profonde (i triboli amletici), il nuovo che diciamo di inseguire e che invece ci terrorizza, per l’incertezza nella quale ci costringe a vivere.