Ottantotto anni fa la scoperta della penicillina cambiò radicalmente la farmacologia. La sintesi di molecole in grado di uccidere i germi che causavano le patologie allora più temute, consentì di abbattere la mortalità e, grazie alla protezione da esse offerta, di schiudere prospettive più ampie alla chirurgia.

Tuttavia, a meno di un secolo di distanza, i proclami di allarme della comunità scientifica tuonano nei media. Gli antibiotici attualmente a nostra disposizione presto non saranno più nelle condizioni di funzionare, non potranno più sconfiggere i batteri che penetrano nel nostro organismo. Come riferito dal Chief Medical Officer del Governo Britannico, entro il 2020 le persone potrebbero arrivare a morire di routine in seguito ad interventi chirurgici minori.

Recentemente, si è assistito alla rapida diffusione degli Enterobatteri resistenti alla classe di antibiotici dei carbapenemi (Carbapenem-resistant Enterobacteriacee, CRE), associati ad un’elevata mortalità. Un altro batterio che desta preoccupazione è il Campylobacter resistente ai fluorochinoloni (ciprofloxacina), ma anche le Salmonelle insensibili a diverse classi di antibiotici e, ultimo ma non meno importante, Escherichia coli. In ambiente ospedaliero lo Staphylococcus aureus è da anni l’incubo dei reparti.

Ma cosa ha portato alle genesi di questo fenomeno? In conseguenza dell’acquisizione della resistenza, i germi hanno sviluppato la capacità di sopravvivere alle molecole normalmente utilizzate per l’eradicazione. La resistenza batterica è, infatti, definita come la capacità dei batteri di essere o diventare insensibili all’azione tossica degli antibiotici. Le ragioni in conseguenza delle quali ciò è accaduto, riguardano essenzialmente la mancata aderenza al protocollo terapeutico (indicazioni o durata del trattamento non rispettate) e la presenza di antibiotici in dosi massicce nelle carni di allevamento. Rientra nel primo caso ora citato l’impiego degli antibiotici nella terapia dell’influenza, vera e propria fissazione degli italiani, almeno a giudicare dalle statistiche. Questi fattori conducono, in ultima analisi, alla selezione di ceppi letali.

I livelli a cui la resistenza può manifestarsi sono molteplici. La molecola di antibiotico può incontrare difficoltà a penetrare nella cellula batterica o ad interagire con la struttura batterica per cui è stata disegnata, che, in certi casi può essere inibita o inattivata. La cellula batterica può modificare la struttura della sua parete cellulare, impedendo così il passaggio dell’antibiotico, o produrre enzimi che provocano il deflusso della molecola dalla cellula oppure enzimi che inattivano il farmaco. Quest’ultimo è il caso delle penicilline. Alcuni batteri sintetizzano le cosiddette beta-lattamasi, ossia proteine in grado di rompere la molecole della penicillina e dei suoi derivati, rendendoli inattivi.

La resistenza è un processo evolutivo naturale, che tuttavia è stato enormemente incentivato dall’utilizzo improprio dello strumento terapeutico. In questo modo, ha potuto originare quella che viene definita come resistenza indotta (o acquisita), selezionata in alcuni ceppi.

Il fenomeno è stato aggravato dalla assenza di new-entries nel mercato farmaceutico. Il percorso di ricerca, sviluppo, produzione ed immissione in commercio di un antibiotico è estremamente costoso e poco redditizio, tanto che le grandi industrie farmaceutiche, negli ultimi anni, sono state scoraggiate ad intraprenderlo dai margini ridotti. Oggi Infectious Diseases Society of America (IDSA) porta avanti un progetto che entro il 2020 dovrebbe sfociare nella produzione di 10 nuovi antibiotici.

Ma, fanno sapere, ci sono attualmente troppo pochi prototipi perché questo obiettivo possa essere raggiunto per tempo. Quindi, alla luce di queste acquisizioni, cosa possiamo fare, in concreto, per fare fronte all’emergenza? Anzitutto istituire delle linee-guida appropriate, che impongano indagini di laboratorio tempestive (i decessi di pazienti affetti da infezioni antibiotico-resistenti sono spesso associati a ritardi nell’istituzione della terapia appropriata). Applicare le good pratices, le procedure corrette da adottare nel controllo delle infezioni. Effettuare costanti screening dei pazienti considerati ad alto rischio di contaminazione da Enterobatteri. Sviluppare programmi di stewardship per gli antibiotici.

Qualche giorno fa si è diffusa la notizia di una donna statunitense che ha contratto un’infezione da Escherichia coli mutato, ossia caratterizzato dal gene in grado di attribuirgli l’effetto CRE, che lo rende insensibile a qualsiasi antibiotico conosciuto. Le autorità sanitarie americane hanno fatto sapere che la paziente adesso sta meglio, ma la consapevolezza che germi di questo tipo sono già presenti anche in Europa ed, in particolare, in Italia, non consente di abbassare la guardia.

Ogni anno nel nostro Continente si registrano 4 milioni di infezioni antibiotico-resistenti, che sfociano in circa 37.000 decessi. Nel nostro Paese il problema riguarda in particolare gli ospedali, dove la frequenza di morti per infezioni contratte in loco è piuttosto alta (soprattutto polmoniti-24%, ed infezioni del tratto urinario-21%). I pazienti ricoverati, infatti, sono per definizione più deboli (e pertanto maggiormente soggetti all’acquisizione di nuove patologie). Inoltre, i punti di inserzione delle flebo, che creano delle soluzioni di continuità nell’integrità della barriera cutanea, diventano potenziali aperture per l’ingresso dei germi.

Oltre alle disposizioni in materia procedurale, dobbiamo ridurre drasticamente l’impiego degli antibiotici, limitandoli, soprattutto nell’ambiente ospedaliero, ai casi di assoluta necessità. E’ necessario anche modificare i criteri di somministrazione delle molecole antibatteriche negli allevamenti, abolendone la somministrazione preventiva. Infine, incoraggiare lo sviluppo di nuove molecole. Per quanto riguarda le abitudini personali, è consigliabile non consumare carne cruda: la cottura a 70 gradi per almeno 2 minuti distrugge tutti i germi.

Per concludere, cosa non possiamo fare? Non possiamo in alcun modo arrestare il processo di mutazione dei batteri, perché risponde ad un meccanismo di selezione evolutiva.